Quelli che stanno


Venerd?, esco di casa verso mezzanotte, prendo un taxi e dopo un?agguerrita contrattazione, vado all?aeroporto. Devo andare a prendere Irene, Alessandro e Alessandro, tre volontari che arrivano dall?Italia armati di computer, vestiti  e medicine. Arrivo dopo quindici minuti all?aeroporto principale del Senegal, intitolato (come lo stadio, il centro culturale una strada e almeno una decina di palazzi di Dakar) al primo presidente della repubblica senegalese Leopold Senghor, discreto scrittore-poeta-filosofo ma pessimo politico, a quanto si dice in Senegal.

All?uscita del taxi faccio una rapida gimcana fra alcuni ragazzotti che cambiano in nero euro con franchi sefa, (la moneta locale) e mi butto nella sala arrivi dove con un certo piacere scopro che l?aereo ? in ritardo di ?appena? un?ora. Maledicendo la categoria aeroportuale mi siedo su uno scalino e inizio ad osservare il salone di attesa.

Nonostante l?ora una svariata popolazione anima l?ambiente circostante. Un piccolo gruppo di persone dall?aria seccata resta incomprensibilmente in piedi vicino ad una grata in attesa dell?uscita dei passeggeri (che avverr? fra non meno di due ore, fra formalit? doganali e recupero bagagli).

Tutti gli altri si muovono con una velocit? impressionante e si vede che appartengono ad una categoria di persone particolare, propria dell?aeroporto. Sono vestiti con un singolare abbinamento di colore e stili diversi, una specie di incrocio della mise di un afroamericano degli anni 70 del bronx di new york, un rapper trucido che va di moda adesso su mtv e un capo villaggio tradizionale.

Appesi al collo hanno, i tradizionalisti, la foto del marabout di riferimento e quelli all?ultima moda cellulari dai colori sgargianti. Capire esattamente cosa stiano facendo ? un po? difficile. Apparentemente vanno avanti e indietro con la velocit? di un razzo, se si incrociano si scambiano grandi saluti per poi ripartire in altre direzioni. Ogni tanto con l?aria da mistero si appartano in un angolo, fanno un crocchio e discutono animatamente. Le poche ragazze che stazionano nell?altra estremit? del salone, sono abbigliate in un modo che lascia poco spazio ai dubbi.

Uno di loro, con un dente d?oro all?incisivo in bella mostra nell?apertura di un sorriso grande mezza faccia, mi si avvicina e mi chiede se voglio cambiare soldi. Ci metto un po? a convincerlo che non ? cosa, e di colpo realizzo che tutta questi giovanotti sono qua alla caccia di qualcuno a cui offrire i propri servigi di cambiavalute. Realizzo anche che il numero di cambiavalute ? esageratamente sproporzionato rispetto alla quantit? di gente che arriver? con l?aereo, ma man mano che il tempo passa alcuni se ne vanno, vinti dalla stanchezza.

Io li guardo. C?? qualcosa che mi colpisce ma non riesco a capire cos??.

Poi, un illuminazione. Per quanto gigioneggiano spalancando sorrisoni hanno gli occhi tristissimi. Forse gli occhi di chi sa che, nonostante tutta la loro attivit? li costringa a passare la maggioranza del tempo all?aeroporto, non partiranno mai.

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